Euro 2016, parla De Biasi: «Così diversi, così uniti: vi stupiremo».

L’allenatore della Nazionale albanese: «È un Paese stupendo, ma noi ne abbiamo una visione distorta, legata a un immaginario vecchio di vent’anni. E lo stesso per la gente: oggi i ragazzi sanno due o tre lingue, le parlano meglio che i nostri ragazzi italiani

Questa storia comincia al quarto piano dello Sheraton di Tirana, una notte di dicembre del 2011. «Hotel elegante, internazionale, poteva essere Londra». Invece è l’Albania, e quello il primo giorno da c.t. di Gianni De Biasi da Sarmede, Treviso. «Ero terrorizzato. Prima di dormire ho messo la sedia contro la porta, come facevano i contadini delle mie campagne quando arrivavano gli zingari. Brutta bestia, il pregiudizio. Chissà di che avevo paura. Che idiota».

Poi, cinque anni dopo, conquistata la qualificazione all’Europeo, lei se ne esce con una frase alla JFK: «Io sono albanese».

«È un Paese stupendo, ma noi ne abbiamo una visione distorta, legata a un immaginario vecchio di vent’anni. E lo stesso per la gente: oggi i ragazzi sanno due o tre lingue, le parlano meglio che i nostri ragazzi italiani. Credetemi».

A proposito: in che lingua comunica?

«Italiano, lo capisce almeno il 70% della squadra. L’Italia per loro resta l’America».

Realisticamente, che obiettivo avete?

«Non siamo in gita. Faremo paura a tutti, vi stupiremo. Primo obiettivo: passare il girone».

Con Francia, Svizzera e Romania è dura.

«Dipende molto dalla partita di oggi. Fra l’altro speciale, perché in rosa abbiamo parecchi giocatori nati o cresciuti in Svizzera, poi tornati e naturalizzati. Sapete qual è la chiave del nostro piccolo grande successo?».

Avanti.

«La commistione, la fusione fra mentalità e origini differenti. Gli albanesi ci mettono cuore, riscatto sociale, rabbia povera; i naturalizzati, che spesso hanno avuto un’educazione calcistica più rigorosa, il resto. Senso tattico, maturità, equilibrio. Il mix funziona».

Davvero ha cercato i giocatori uno a uno?

«Una faticaccia, ho fatto almeno 70 viaggi in giro per l’Europa col mio vice Paolo Tramezzani, cercando chi avesse un padre o un nonno albanese. Berisha giocava al Polo Nord. Non avevamo archivi, abbiamo usato pure Wikipedia».

Ma Januzaj del Man Utd non l’ha convinta.

«Un maleducato. Ho scritto a lui e ai suoi parenti in inglese, francese, albanese e italiano. Non mi ha neanche risposto. Ha scelto il Belgio che non l’ha convocato…».

Quali sono i vostri punti di forza?

«Fatichiamo un po’ a segnare, ma la fase difensiva è buona e la mediana si sacrifica. La chiave è il gruppo: basta sapersi isolare dalle pressioni enormi che riceveremo dal nostro Paese».

Lei passa per contropiedista.

«Non mi offendo. Si può essere belli in molti modi, ognuno usa le carte che ha».

Alla fine chi vince?

«La Germania. La Francia è forte ma ha troppe pressioni, il Belgio non ha dimestichezza sufficiente».

La sua, con tutto il rispetto, è stata una carriera modesta. Questa è una bella rivincita?

«Diciamo che sto dimostrando di non essere del tutto un cretino. Qualche errore l’avrò commesso, ma zero rimpianti: il calcio è fatto di corporazioni e io ne sono sempre stato fuori. Sono arrivato fin quassù con i miei piedi».

La sua candidatura a c.t. azzurro è stata in piedi fino all’ultimo. Quanto le è dispiaciuto?

«Solo un onore. In bocca al lupo a Ventura».

Condivide il pessimismo attorno all’Italia?

«No, quando partiamo male poi facciamo bene, è la nostra storia a dirlo».

Lei disse che i ragazzini in Italia giocano troppo con la playstation.

«È così. Ci siamo imborghesiti, altrove i ragazzi hanno un’altra fame, un’altra ambizione, altro entusiasmo, vitalità. L’Albania è l’Italia di quarant’anni fa, anche calcisticamente».

Quindi resta pure dopo l’Europeo. Ormai le hanno dato anche la cittadinanza…

«E la laurea honoris causa in Scienze sociali dalla Tirana European University. Il primo ministro Edi Rama dice che sono il loro ambasciatore. Gli italiani in Albania sono sempre di più: il costo del lavoro è un settimo, un nostro pensionato lì vivrebbe da re. Magari proveremo anche ad andare al Mondiale. In fondo io vengo da Sarmede, che è chiamato il paese delle favole per via di un bel festival che fanno da qualche tempo. Le favole diventano realtà solo se ci si prova». Già, e a volte basta levare una sedia dalla porta.

A cura di  di Carlos Passerini e Paolo Tomaselli tratto dal Corriere della Sera